12 Agosto - NeroGrafie
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Da Il mistero dell’inquisitore Eymerich; di Valerio Evangelisti
Sebbene fuori dalla tenda brillasse il sole, Eymerich ebbe l’impressione che fosse calata una notte improvvisa, e che creature da incubo, provenienti da un passato remotissimo, si stessero radunando al di là di quelle fragili pareti di stoffa. Cominciava ad essere stremato. Sospirò. Tornò a sedere sul pagliericcio, poi fissò sull’eretico uno sguardo ardente, ma velato dalla stanchezza:
“Ti dirò ciò di cui sono convinto io – disse – Credo, con Alberto Magno, che la concupiscenza carnale appartenga alla sfera animale, e degradi l’uomo. Credo, con Tommaso d’Aquino, che ciò che è puro sia vicino a Dio, e che lo spirito sia puro e la carne infetta. Credo che la ragione, in armonia con la fede, debba ferreamente dominare le turpitudini del corpo, perché queste ultime non sono sottomesse alla legge divina, come diceva Paolo. Credo che l’anima intellettuale e immortale sia l’unica forma sostanziale dell’uomo. Considero le tue opinioni blasfeme, ma col disordine teologico che regna attualmente nella Chiesa non posso giudicarle eretiche. Solo quando il pensiero dell’aquinate sarà l’unico a essere ammesso potrò condannarti a cuor leggero. Quel giorno, vedi di non capitarmi tra le mani.”
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I personaggi di Evangelisti attraversano il Tempo: sono animati da sogni, desideri e paure di oggi e di domani, fantasie che tentano di dominare la razionalità per piegarla a volte anche alla disumanità. Famoso per il suo Nicolas Eymerich, spietato inquisitore del 1300, affascinante e tormentato personaggio, Evangelisti ha saputo raccontare la storia di diversi e inquietanti avventurieri come Pantera o Eddy Florio, collocandoli in situazioni storiche ma lontane dalle abituali visioni.
Dall'epopea della ferrovia e delle compagnie minerarie negli Stati Uniti dell'800 alla storia di un mafioso italo-americano negli anni Trenta e infine alla formazione dello stato nazionale in Messico, lo scrittore bolognese predilige un lavoro di scavo nella memoria per riportare alla luce le radici delle lotte che hanno costruito il nostro presente. Eroi d'avventura, anarchici romantici o spietati attraverso cui Evangelisti compone scritti di grande valore storico nella critica al potere.
ELISABETTA MARSIGLI
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Bel minicd/demo d'esordio questo dei lucchesi Aghast Insane, un'intro e 5 pezzi per un totale di quasi 18 minuti che rivelano un gruppo caratterizzato da entusiasmo, grinta e compattezza, come tutti i gruppi undergound che si rispettino, ma anche dotato di personalità e di capacità tecniche e compositive decisamente sopra la media, che invece purtroppo tendono spesso a latitare, soprattutto nelle prime prove. Il genere proposto è quell'heavy-thrash tipicamente americano che ha fatto la fortuna di molti gruppi d'oltreoceano, in primis ovviamente i Megadeth, quindi brani con sfuriate violente ed accelerazioni repentine ma sempre un certo controllo del tutto, diciamo così, e un occhio particolarmente attento alle melodie e alla cura dei dettagli. Il trittico iniziale è emblematico in questo senso, con brani corti e relativamente sparati ("Alone") o leggermente più intricati ("Cherudek") ma decisamenti efficaci e personali (particolarmente bello poi l'inizio dell'omonima "Aghast Insane").I restanti due brani del lavoro, durando quasi quanto tutti quelli che li hanno preceduti, sono i più lunghi del lotto e mettono quindi più alla prova il gruppo che però, l'avrete capito, si rivela abbastanza maturo da non farsi assolutamente intimidire e continua per la sua strada, macinando riff su riff senza mai precipitare nel troppo scontato e quindi nel banale.Decisamente buona la produzione, con suoni incisivi e ben bilanciati (anche se per i miei gusti qualcosa andava rivista leggermente per la batteria), ottima la prova di Riccardo Bernardini, soprattutto sui toni medio bassi, precisa ed inarrestabile la sezione ritmica, affiatatissime e ipertaglienti le due chitarre. Potenza, "tiro", melodia, capacità, personalità, che altro volete? Aghast Insane, segnatevi il nome.
Vincenzo Buccafusca da http://www.heavy-metal.it/recensioni/demo_templ.php?id=148
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Giorgio Faletti: ''Uno in diviso'' di Alcìde Pierantozzi è un romanzo straordinario (06 giugno 2007)
“Mi piacciono tutti i romanzi di Lucarelli” dice “ma se devo indicare due chicche, due autori da tenere d’occhio, allora devo segnalare Alcide Pierantozzi e Piero degli Antoni. Il primo” continua “ha scritto Uno in diviso: un romanzo straordinario, di quelli crudi e violenti che sono la mia passione... dall'intervista a Giorgio Faletti, a cura di antonio carnevale per Panorama.it
Il talento fa paura. Il talento inquieta, ancora, persino in un tempo impassibile come il nostro. Soprattutto quando è giovane, e si presenta a noi con furia inaudita. La furia simbolica, sessuale, filosofica, omicida di questo libro, di questo romanzo struggente, infernale e paradisiaco al tempo stesso.Taiwo e Kehinde sono gemelli siamesi. Il loro corpo dotato di due busti e di un solo paio di gambe ha la forma di una ipsilon, come la lingua di un serpente, ma lavorando come inservienti dietro il banco di un locale di incontri sessuali pochi conoscono la loro natura, la verità della loro carne. È solo la prima di una serie di immagini fulminanti, di una successione di pagine fosche e splendenti che alternano ossessioni, torture, gironi danteschi, filosofia, sangue, suggestioni horror, riferimenti pasoliniani, passaggi efferati e altri pieni di una grazia purissima, quasi infantile.Uno in diviso: io, l’Italia, due gemelli con il corpo a forma di ipsilon, la Chiesa, l’aborto, i Pacs, l’omicidio, il terrore di uno sfruttamento fisico e intellettuale, il terrore di una spaccatura. Un romanzo che è un presagio, una fulminante premonizione. Una storia che descrive il crollo delle dicotomie contemporanee e ricorda il Pasolini degli ultimi film. Un terremoto che muove tutte le coscienze. L’autore ha vent’anni. Prima d’ora nessuno aveva mai osato tanto.
da http://217.220.124.215/hacca/prodotti/prodotto.php?idProdotto=11&PHPSESSID=4f8f52a0d3ef0675b721288c7a09b257
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Un libro doloroso e liberatorio sui sentimenti e il sesso, una confessione con le apparenze di un gioco, una crudeltà talmente semplice da avere un suo apparente, illusorio candore, giorno dopo giorno, per sei settimane, in questo diario quotidiano, col suo omicidio quotidiano. Tante storie d'amore, di incontri che paiono intimi e si rivelano impossibili. Delitti esemplari tutti, questi di Antonio Veneziani, come quelli di Mac Aub, ma che nel momento liberatorio del gesto, generalmente improvviso, trovano anche la propria condanna. Si uccide l'altro per rivelare la propria impotenza sentimentale. L'amore non è che lo specchiare se stessi nell'altro, come già aveva capito Socrate, impossibile tentativo di superare la propria incompletezza, di trovare una inesistente finitezza. Il bisogno della bellezza. ''Fu il venticello che improvvisamente si era alzato a farmi intravedere la roncola tra le foglie. Ci spiavamo da quarantanove anni. Ambedue pronti a colpire (....) La saliva amara, seppi che non avrei più potuto trasalire di speranza''. In questi brevi, spesso brevissimi racconti c'é tutta la precarietà della nostra umanità, la nostra transitorietà esistenziale e disperata solitudine, che cerchiamo di dimenticare nella ricerca, nell'aspirazione all'assoluto. Un assoluto che è l'amore, ma che si può cogliere in un verso, un gatto che passa, una prima luce in cielo, allo svanire della notte. E, per Veneziani, anche, potremmo osare, nell'attesa ebraica di un messia, nell'eredità di vittime. E nell'omosessualità come orgoglio e condanna, come centralità e marginalità: ''Ho la certezza di essermi perso Signore, ecco perché attraverso il presente scusandomi continuamente''. La verità che queste pagine ci mostrano è che se non credi nel tuo, di amore, come puoi credere in quello dell'altro? Sono solo bisogni disperati, d'amore a qualsiasi costo, a rimarcare che si è sempre soli. E chi stende queste pagine appare come un puro deluso dal mondo, un mite che fantastica, come è regola della letteratura, un poeta che si mette a nudo. Ogni pagina di diario, ogni giorno, un incontro e un gesto, un incontro d'amore e un gesto generalmente improvviso e talmente esemplare e terribile da essere spesso sottinteso, non descritto. Come una poesia in cui salta un verso, ma si avverte lo spazio, la cesura. Una bolla di rabbia che trova un suo sfogo, una serena ripetitività, una violenza che è solo il riverbero di quella che si subisce in questo sporco mondo. ''Metto musica di Louis Armstrongo di Tom Waits? Di Lou Reed o dei KlezRoym? Non importa: basta siano canzoni d'amore, anche se mi spingeranno alle lacrime e mi asciugheranno la saliva''.
Paolo Petroni
Ci sono artisti che frequentano l’immobilità, così come ci sono ricercatori che tentano continuamente il divenire. Un esempio di immobilità, tanto per fare un esempio eclatante, è quello di Giorgio Morandi. Siamo sicuri, infatti, che fra il periodo “metafisico” e quello delle bottiglie, ci sia tanta differenza? Ci permettiamo di dubitare fortemente sulla discontinuità di questo grande pittore. Antonio Veneziani appartiene senz’altro al “partito eracliteo”; in altre parole, è un autore che si lascia felicemente tentare dalla scrittura e dal desiderio di rinnovare continuamente la scrittura stessa. Al di là di questo, esiste un filo rosso che segna l’intera avventura creativa del poeta? Riteniamo che si possa rispondere positivamente ad una domanda del genere. Infatti la scrittura di Antonio Veneziani è, da sempre, immersa fino al collo nella carne e nell’esistenza. Da qui la conclamata estraneità dell’autore di Vespasiani e di Cronista della solitudine nei confronti di Giorgio Manganelli. L’autore de La palude definitiva va a caccia di un lettore che sa che niente gli verrà detto poichè la letteratura si costituisce come uno spazio astratto che non comporta né un messaggio né una comunicazione. Veneziani, al contrario, vuole comunicare; comunicare che cosa? Appunto la carne, solo la carne; ora però la carne di Vespasiani è assai diversa da quella del Cronista della solitudine (Hacca editore, 105 pagine, 10,00 euro), l’ultima fatica del poeta. Vespasiani è intriso di una intensa liricità; basti pensare a “Sbucciando / la luna sulle dita /, il vagabondo tirò giù il ragazzo /, nell’umidità del fossato”, per comprendere come, in questo caso, la scrittura ,appunto, non vuole separarsi dall’effusione lirica. Nell’ultimo lavoro si aprono senz’altro momenti lirici, ma questi non costituiscono l’anima del Cronista; insomma, in che consiste il grande valore di questo libro? Ci troviamo dinanzi a quarantanove brevi racconti che vedono Veneziani operare una felicissima sintesi fra l’esistenza, colta in tutta la sua contraddittorietà, ed una sorta di surrealtà. Si tratta di un libro nero? Certo si narrano degli omicidi, omicidi che non si sa bene se compiuti o solo immaginati. L’universo poi è segnato da quelli che Giancarlo De Cataldo chiama i “marchettari angelici” dato che, lo ripetiamo ancora, la carne urge e non può essere messa a tacere. La surrealtà, una surrealtà alla Veneziani, è data da una immersione nel fantastico che ci fa comprendere come tutto l’essere, per il poeta, sia ambiguo e fonte di un approccio polisemico. D’altronde non potrebbe che essere così dato che Antonio Veneziani è un filosofo ateo e quindi rifugge dalla comode sicurezze della verità assoluta. Dunque, la radice ultima della sintesi operata dal Cronista della solitudine sta nell’eresia che si trova al centro stesso di Veneziani: l’eresia che vede l’ebreo rifiutare il Dio dei padri e l’omosessuale rigettare la grande muraglia della pretesa “normalità”. “Errante, erotico, eretico” avrebbe detto Osvaldo Licini; definizione assolutamente perfetta per Antonio Veneziani.
Robertomaria Siena